maggio 2025


PUPI AVATI: «DOPO 55 FILM, UN DAVID ALLA CARRIERA È COME UNA VALUTAZIONE DELLA TUA VITA» di Elisa Grando

Insieme al fratello produttore Antonio, Avati ha creato il gotico padano e raccontato un’Emilia immaginata che intreccia storia, ricordi e desideri. E ha esplorato i generi sempre con una propria voce: «Trovarla è la cosa più difficile. Ma a 86 anni un premio alla carriera significa che quello che ho fatto è stato apprezzato»


È felice Pupi Avati. «Questo David è come un apprezzamento complessivo: dopo 55 film assomiglia alla valutazione della tua vita», dice, preparandosi a ricevere il 7 maggio il David alla Carriera dopo dieci candidature e tre David già vinti, il primo nel 1990 per la sceneggiatura di Storia di ragazzi e di ragazze, un “David Luchino Visconti” nel 1995 e poi nel 2003 alla Miglior Regia per Il cuore altrove. «Negli ultimi anni non mi era più accaduto di vincere, mi sembra bello che ora si considerino tutti i titoli che abbiamo fatto io e mio fratello. E poi quando si è anziani questo tipo di riconoscimento viene apprezzato di più: vuol dire che quello che hai fatto è considerato in modo positivo».
Col suo cinema, insieme al fratello produttore Antonio, Avati è da sempre grande cantastorie degli intrecci fra occulto, credenze popolari e religione, dall’esordio Balsamus, l’uomo di Satana, e poi con tanti altri film come Thomas e gli indemoniati, La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, Zeder, L’arcano incantatore. Ha inventato il gotico padano, dal cult intramontabile La casa dalle finestre che ridono agli ultimi Il signor Diavolo e L’orto americano, e ha attraversato i festival più importanti coi suoi poetici ritratti emiliani, tra storia e ricordi, come in Regalo di Natale, Il testimone dello sposo, Il cuore altrove, La seconda notte di nozze, Il papà di Giovanna.

Nei suoi film e nei suoi racconti torna spesso anche il rapporto con l’aldilà…
«Perché ho paura della morte, che spaventa perché è un mistero. Viene dalla cultura contadina, che ha un rapporto con i morti forse malsano: quando eravamo bambini ne parlavamo spessissimo, ci portavano a baciare i parenti morti, c’erano dei riti terrificanti».

Esorcizza la paura della morte col cinema?
«Sì, ma soprattutto dicendo la sera i nomi dei miei cari che mi sono stati vicini nella vita. Mi rassicura, non mi sento più solo».

Cos’è un bravo attore per Pupi Avati?
«Un essere umano sensibile, vulnerabile, fragile, soprattutto con senso di inadeguatezza. Gli attori migliori sono quelli che si sentono non all’altezza della vita che fanno. Sono molto grato a certi attori che mi hanno dato la parte migliore di loro stessi, come Carlo Delle Piane. In altri casi c’è stato solo un rapporto professionale, non sono riuscito ad entrare in confidenza assoluta, e infatti i film non sono perfettamente riusciti».

È uno dei registi italiani che ha frequentato di più l’horror e il gotico: perché?
«È la fascinazione nei confronti della paura, perché sono rimasto simile a quello che ero da bambino. I bambini convivono con due sentimenti contrastanti: da una parte la paura li attrae, dall’altra li spaventa. Sono rimasto molto legato a quella stagione della vita e lo si vede dal mestiere che faccio, abbastanza infantile: racconto ancora le favole, e la paura è un elemento che mi restituisce a quando ero ragazzo».

Nel suo cinema c’è anche molta autobiografia emiliana…
«Racconto Bologna perché è una città che ho lasciato: quando ci stavo non mi piaceva e ora che non ci sto più mi piace reinventarla come avrei voluto che fosse. È una Bologna immaginata».

Lei ha attraversato i generi, non solo l’horror e il noir, ma anche la commedia e il dramma, il film storico e il biopic, eppure un suo film si riconosce al primo sguardo…
«Era quello che ho cercato fin dall’inizio. Sono stato venti volte alla Mostra di Venezia e cinque volte al Festival di Cannes: nelle competizioni internazionali ti confronti con molti colleghi registi e ognuno di loro ha una propria identità. Trovarla è la cosa più difficile. All’inizio ero molto influenzato da Federico Fellini: ho cominciato a fare il cinema perché ho visto 8 e ½, ma poi nel tempo ho trovato un mio tono di voce, una mia calligrafia e questo si riconosce in qualunque genere io frequenti: anche un film come Ultimo minuto sul mondo del calcio è tuttavia un film mio».

Qual è il suo film che ha sentito più sottovalutato?
«I più sottovalutati sono quelli che amo di più, come i figli che non ce l’hanno fatta. Per esempio L’orto americano non mi ha dato le soddisfazioni che mi aspettavo: ho ricevuto bellissime recensioni ma il pubblico non è andato a vederlo, e questo mi ha dato molto dolore. Anche Magnificat non ha avuto successo ma secondo me era significativo».

Quanto ha contato nel suo percorso suo fratello Antonio?
«Moltissimo. Per permettermi di realizzare i film che volevo, mio fratello ha rinunciato a una sua propria avventura creativa. Voleva fare l’attore ma lo consigliai di diventare produttore perché mi sembrava una professione che gli permetteva di scegliere, invece che essere scelto. Spesso è lui a suggerirmi gli attori perché è molto più informato di me, va molto al cinema e a teatro».

Negli ultimi mesi si è dichiarato preoccupato per il cinema italiano: cosa non va secondo lei?
«Non va niente, è a picco. Il cinema italiano sta morendo e quelli che dovrebbero tenerlo in vita non sanno cosa fare. Non capisco perché ci debba essere questa divisione tra destra e sinistra sul destino del nostro cinema: bisognerebbe che ci fosse un’unione bipartisan per decidere. Il cinema italiano si può salvare solo con un’agenzia come quella che esiste in Francia. E con delle finestre tra l’uscita al cinema e le piattaforme che siano di diversi mesi».

Negli ultimi anni ha girato un film all’anno. Qual è il prossimo?
«Non lo dico».

Però ha già un’idea?
«Ho sempre un’idea, ce l’avrò anche quando non ci sarò più».