MAGGIO 2025


ORNELLA MUTI: «SONO CRESCIUTA NEL CINEMA. E ORA MI PIACEREBBE GIRARE UN FANTASY» di Elisa Grando

L’attrice riceverà il David Speciale dopo una lunga carriera in più di 90 film, tra cinema d’autore e commedia popolare, da icona assoluta del cinema italiano: «Non mi sono mai sentita una diva, mi diverte il pensiero di esserlo ma non mi ci voglio affezionare»


C’è ancora un sogno che gira nella testa di Ornella Muti: «Mi piacerebbe fare un fantasy, interpretare una maga, una strega buona. Manca solo quello: ho fatto tutti i generi, persino la sirena». Il 7 maggio Ornella riceverà il David Speciale dopo una carriera da diva italiana e internazionale nei film di Monicelli, Damiani, Ferreri, Risi, Rosi, Scola, Nuti, Verdone, Virzì, ma anche di Mike Figgis, Woody Allen e John Landis, amatissima dal pubblico nella commedia popolare con Adriano Celentano e Renato Pozzetto, protagonista anche a Cannes per autrici come Francesca Archibugi e Asia Argento. «Sono cresciuta con il cinema e nel cinema», dice Muti, che ha debuttato sul set a 14 anni e infatti già nel 1976, poco più che ventenne, ha ricevuto la Targa d’Oro ai David di Donatello per il complesso delle sue interpretazioni.

Ha esordito al cinema a 14 anni nei panni di Franca Viola in La moglie più bella già con un grande autore, Damiano Damiani. Ha spesso detto che quei primi anni non sono stati facili, però ha continuato a fare l’attrice…
«Era un destino. Mi hanno presa per caso, accompagnavo al provino mia sorella. Damiani ha preferito me a lei per una questione di età: quando Franca Viola ha cambiato le leggi tribali della Sicilia era ancora una ragazzina. Ma fare l’attrice non era nella mia testa, non avevo la vocazione da sempre. Damiano è stato un po’ duro, non è stata una passeggiata. Ero spaventata non sapendo bene cosa fare in un film con una grande responsabilità. Mi sono buttata: è quello che fanno nei momenti importanti le donne».

È quello che ha fatto anche sul set di Romanzo popolare di Mario Monicelli: sul set aspettava sua figlia Naike…
«Il giorno prima di partire per Milano mi è arrivata la bustina con il risultato delle analisi del sangue, con scritto “positivo”: è stato il panico totale. Mia madre ha chiamato per dire che non potevo più andare, ma Mario ha risposto: “Non mi importa niente, la sbrigo velocemente”. Sul set lo sapevamo solo Monicelli, mia madre e io. Le sarte mi dicevano: ma come mai questo seno ti si ingrossa giorno dopo giorno? È come se fossi diventata adulta in una notte. E poi ero sola, la mia vita era abbastanza incerta in quel momento».

Però ha iniziato subito a lavorare coi registi più importanti…
«Perché all’epoca c’era chi faceva film di cassetta, per esempio quelli con i cantanti, o Franco e Ciccio con le parodie dei titoli famosi che a torto erano considerati film minori, e poi c’era il cinema italiano che era Scola, Monicelli, Risi, Samperi, Ferreri: lavoravano i grandi. Oggi c’è il regista grande e poi molti altri magari altrettanto bravi che non emergono o non lavorano».

Non si riconosce più nel cinema di oggi?
«Penso solo che allora era diverso perché la gente andava al cinema. In Francia ci va ancora, in Italia molto meno ed è un peccato sapere che la sala oggi è in difficoltà. Vedo tutto trasformato: per un autore oggi è dura emergere. L’industria è cambiata, è sbagliato fare dei paragoni col passato ma comunque oggi è più difficile lavorare».

Anche per lei?
«Nel cinema italiano non ci sono bei ruoli per donne grandi, e questo dispiace. La televisione spagnola, per esempio, sforna invece film e serie con donne di tutte le età».

Chi considera i suoi maestri?
«Sicuramente Ferreri e Monicelli, ma sarebbe ingiusto identificarne solo alcuni: tutti hanno contribuito a formare un pezzetto di me, perché sono cresciuta nel cinema non ho fatto scuole e mi sono costruita lavorando, guardando come recitavano Tognazzi, Mastroianni, Jeremy Irons. Siccome sapevo di non sapere, mi sono sempre messa a totale disposizione del regista assorbendo tutto quello che potevo».

Cosa le è rimasto della sua esperienza all’estero?
«In Francia ho avuto avventure bellissime, sul set è un cinema più disciplinato con un grande rispetto per gli attori. In America entri in un sistema totalmente diverso dal nostro, dove tutto è enfatizzato. Sul set di Oscar – Un fidanzato per due figlie con Stallone mi sono divertita a vedere le nostre controfigure che usavano per provare le luci, con la stessa pettinatura che avevamo nella scena e gli stessi costumi: è come vedere dei piccoli sé».

Qual è il bello e quale il brutto di essere una diva?
«Non mi sono mai sentita una diva, mi diverte il pensiero di esserlo ma non mi ci voglio affezionare, perché più ti innalzi e più ti fai più male quando cadi. Cerco di fare bene il mio lavoro, prendendo tutto con molta delicatezza: se dai la giusta dimensione alle cose, non possono che essere belle».

Ha sempre dichiarato che, per lei, era importante mettere la famiglia al primo posto…
«Gli attori sono pieni di fragilità, non sai mai se domani lavori, vivi il successo e la caduta, e l’invecchiamento non è facile: la famiglia è fondamentale per restare in equilibrio».

Guardando indietro, ha qualche rimpianto?
«Ogni volta che mi viene in mente, sposto lo sguardo da un’altra parte. I rimpianti per me sono come film del terrore perché non puoi porvi rimedio. Ma bisogna sapersi perdonare, pensare a chi eri quando hai preso quella scelta: se hai fatto quel capitombolo, ci sarà stato un motivo».