Beatrice Fiorentino: «Guido la Sic alla ricerca del nuovo cinema dell’era Covid» di Elisa Grando

La prima delegata donna della Settimana della Critica racconta come sarà la prossima edizione e lo sguardo necessario per raccogliere la sfida dell’emergenza


La nomina di Beatrice Fiorentino come delegata della Settimana internazionale della Critica, avvenuta qualche settimana fa, è doppiamente storica: è la prima donna in assoluto a ricoprire questa carica, e guiderà la Sic partendo dall’anno più difficile per il cinema, quello azzoppato dall’emergenza del Covid-19. «Tutto è cambiato», afferma Fiorentino. «Per questo, con la Sic, vorremmo quest’anno cercare di identificare un cinema non “sul Covid”, ma “dell’era Covid”. Noi per primi dovremo rimettere in discussione il nostro modo di vedere i film». Beatrice Fiorentino, triestina, è critica cinematografica per quotidiani come Il Piccolo e Il Manifesto, per la rivista 8 e ½, per il sito di Cinecittà News. È entrata nel comitato di selezione della Sic nel 2016: quando il delegato Giona A. Nazzaro è stato nominato nuovo direttore del Festival di Locarno, la nomina di Beatrice è parsa quasi un passaggio naturale, nel segno della continuità. Parola che per lei, pur nella sfida di una Sic per forza di cose diversa da tutte dopo questa stagione incerta, resta la bussola nel percorso da intraprendere.


Beatrice Fiorentino, com’è la Sic della quale ha preso la guida?

Con Giona A. Nazzaro abbiamo lavorato a una possibile definizione del cinema del presente. Ci siamo chiesti cosa significhi, oggi, imbracciare un dispositivo di ripresa: come e cosa guardare, anche, ma non necessariamente, fuori canone. Sento la Sic come parte dell’offerta veneziana, assieme alla selezione ufficiale della Mostra e alle Giornate degli Autori, ognuna con sguardo e identità propri. Sotto la direzione di Alberto Barbera, in un certo senso più “mainstream” rispetto a quella di Marco Müller, la Sic si è ricollocata andando alla ricerca di territori di cinema meno esplorati e talvolta più audaci, con delle punte di autorialità che altrove, probabilmente, avrebbero faticato a trovare il giusto spazio.


Nel 2021 quale strada imboccherà?

L’obiettivo che ci poniamo è quello di mantenere la rotta. L’esperienza con Giona è stata positiva da ogni punto di vista: ci lascia una sezione dai contorni precisi, oggetto di attenzione sia in Italia che all’estero. Dopo Venezia i nostri film continuano a viaggiare ovunque, dal Moma ai festival di tutto il mondo. L’idea, quindi, è di lavorare in continuità, con una forte idea di cinema e alla scoperta dei nuovi cineasti del presente. Con una opportunità in più: quella di provare a tradurre ciò che stiamo attraversando in questo anno pazzesco in un cambiamento di sguardo, un modo diverso di guardare alle traiettorie dello spazio, del tempo, delle relazioni, del rapporto tra i corpi, della distanza. Individuare, se esiste, non un cinema “sul Covid” ma “dell’era Covid”.


Dal punto di vista logistico, però, non sarà un anno facile…

Soprattutto per quanto riguarda i mercati e i festival in presenza. Il networking sulle piattaforme non è la stessa cosa. Abbiamo gli strumenti per fare tutto online, ma è difficile organizzare qualsiasi cosa in anticipo.


Quale squadra ha scelto per questa Sic?

Il comitato di selezione resta in carica: Paola Casella, Simone Emiliani, Roberto Manassero e Enrico Azzano, che subentra. Negli anni passati abbiamo lavorato in armonia, ho totale fiducia nel gruppo. E poi ci sono i fondamentali programmer: Anette Dujisin, che faceva già parte della squadra, mentre al posto di Eddie Bertozzi arrivano Alessandro Gropplero, già responsabile delle relazioni internazionali del Fondo per l’Audiovisivo del Friuli Venezia Giulia, e Suomi Sponton, senior manager del Far East Film Festival di Udine.


Come si arriva al programma della Sic che vediamo a Venezia?

Lavorando tutto l’anno. Da settembre in avanti reperiamo i titoli, un lavoro di ricerca che spetta soprattutto ai programmer e al delegato. Poi a febbraio apriamo la call. E man mano che i film arrivano li vediamo cominciando a ragionare sulla selezione, che chiudiamo in luglio. Solo opere prime: ne riceviamo circa 500 all’anno da ogni parte del mondo. Ne scegliamo sette per il concorso, più i due titoli di apertura e chiusura fuori concorso. E altrettanti cortometraggi italiani che fanno parte del concorso Sic@Sic.


Perché nel 2014, dopo diversi anni nei quali si è occupata di cinema, ha deciso di iscriversi al Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani?

Perché mi sento affine con quell’approccio al cinema. Oggi va di moda pensare che "uno vale uno”, concetto affascinante, ma non sono d’accordo. E in epoca di dilagante opinionismo, volevo se possibile contribuire a riaffermare il ruolo della critica, se non in crisi di identità quanto meno alla ricerca di una necessaria ridefinizione.


Quindi qual è il ruolo della critica oggi?

Non quello di un tempo, del resto il mondo è cambiato. Gli spazi della critica si sono ridotti, specialmente sui quotidiani ma, avendo strumenti per distinguere, su internet si trovano anche voci eccellenti. La critica perciò non è morta. Magari non ha la stessa autorevolezza del passato anche come riflesso dell’iconoclastia dei tempi, eppure credo che sia ancora necessaria o almeno utile. Per comprendere, distinguere. Certo, il giudizio del critico è solo un giudizio, non è indiscutibile né superiore, ma offre chiavi di lettura. Non amo particolarmente la critica che parla a se stessa o cala dall’alto una verità, ma quella che aiuta a ragionare sul film. Anche mettere in piedi una selezione è un modo di fare critica: si indicano possibili rotte.


È la prima donna delegata Sic: cosa significa per lei questo traguardo storico?

Mi piacerebbe non farci caso, rivendicando l’idea di essere stata nominata non per una questione di “opportunità”, ma di competenze. Eppure sentiamo il bisogno di evidenziarlo, perciò significa che è davvero successo qualcosa e l’aspetto importante di questa prima volta è che se c’era un tabù ora è caduto. Proprio in questi giorni Sara Gama è stata nominata vice-presidente dell’Associazione Calciatori, un altro ruolo ricoperto negli anni solo da uomini. Credo sia un bell’esempio, un’ispirazione. Per quella bambina che può sognare di fare “da grande” ciò che desidera. Per quella studentessa di cinema che ora sa che non esistono strade precluse. Anche se l’impegno richiesto a noi donne è sicuramente maggiore: siamo sotto esame, dobbiamo dimostrare di essere all’altezza più di quanto venga richiesto a un uomo.


La Sic tiene conto della rappresentatività delle registe donne nella sua selezione?

Come forma di sensibilità, più che per regola. Negli anni scorsi, alla Sic, anche prima del #Metoo, abbiamo intercettato autrici che ci hanno convinti subito per il loro talento: da Anna Eriksson a Natalia Garagiola, da Silvia Luzi e Irene Dionisio a Helena Wittmann e molte altre. A nessuno piacciono le “quote”, non c’è donna o cineasta che vorrebbe essere selezionata per questioni di genere. Ma è anche vero che per le donne è ancora difficile superare lo sbarramento iniziale. Perciò queste quote bisogna farsele piacere fino a quando la presenza femminile sarà un risultato naturale e giocheremo tutti ad armi pari. Mi pare che qualche risultato cominci già a vedersi.


Da dov’è nata la sua passione per il cinema?

Se guardo indietro, mi pare che il cinema abbia sempre fatto parte del mio orizzonte. Istintivamente, fin da bambina, ho sempre desiderato far parte di questo mondo. Fra i primi film visti in sala ricordo Fantasia e Il Dottor Zivago, ma per quanto possa sembrare un'eresia il cinema l’ho conosciuto soprattutto attraverso la televisione. Con mio padre la sera guardavamo spesso i classici di Hollywood: Il ponte sul fiume KwaiNiagara, i western degli anni ’50. Fra le prime voci critiche che ho incontrato, sempre sul piccolo schermo, Vieri Razzini, un tipo di critica divulgativa che apprezzo molto, e solo dopo, ai tempi del liceo e dell’università, Enrico Ghezzi con i film di Fuori orario fino a tarda notte. Per molti anni, soprattutto durante l’adolescenza, il cinema è stato un rifugio, un sostituto di affetti. Carpenter e Truffaut, Nick Ray, Don Siegel, Bertolucci, la New Hollywood, erano “casa". A 18 anni avrei voluto tentare la strada del Centro Sperimentale, ma ho finito per iscrivermi all’Università di Trieste, dove ho seguito i corsi di cinema di Alberto Farassino e di Roberto Nepoti. È stato allora che il cinema è diventato oggetto di studio e non di puro piacere. Erano gli anni ’90. Ho cominciato a frequentare alcuni festival: Venezia, Riminicinema, Alpe Adria. Ho girato dei corti, ho avuto esperienze come docente di cinema, ho anche cercato di avere una vita “normale” con un lavoro “normale”. Poi è arrivata la collaborazione con “Il Piccolo”. Non so cosa è successo ma tutti i pezzi sono andati magicamente a posto. E da quel momento il cinema è diventato la mia professione.