SPECIALE "ASPETTANDO IL DAVID68"

Foto di Paola KUDACKI


Isabella Rossellini: «Ho una carriera internazionale, questo David mi fa felice: è un riconoscimento della mia presenza anche in Italia» di Elisa Grando

Attrice, modella, regista, autrice, etologa: Isabella Rossellini, David Speciale 2023, ha tessuto un percorso artistico composito e anticonvenzionale, che l’ha resa un’icona in tutto il mondo. Vive in una fattoria a cento chilometri da New York: «Voglio continuare a fare l’attrice, ma soprattutto l’etologa. Dopo una certa età è un dato di fatto, per le donne ci sono solo ruoli da non protagonista. Ma ho l’impressione che sulle piattaforme ci siano storie più varie per tutte le età, forse siamo all’inizio di un nuovo capitolo»


Quando ha saputo che avrebbe ricevuto il David Speciale alla 68ma edizione dei Premi David di Donatello, la prima reazione di Isabella Rossellini è stata la sorpresa: «Non me lo aspettavo: ho vissuto negli Stati Uniti dall’età di 24 anni, e c’ero già andata prima, a 19 anni, per lavorare per la Rai con Renzo Arbore e Luciano De Crescenzo. La mia carriera è continuata in maniera molto internazionale, ma meno in Italia: non che non volessi, ma non è successo. Quindi mi ha sorpreso, e mi fa molto piacere avere con questo David una presenza in Italia». Rossellini è un’icona di stile, di bellezza, soprattutto di come il talento vero possa esprimersi in direzioni differenti: attrice, modella, giornalista, regista, autrice di testi teatrali e anche etologa, per coronare l’amore per gli animali che coltiva da sempre. Vive in campagna, nella sua fattoria a cento chilometri da New York, viaggiando per lavoro almeno sei mesi l’anno: la prossima tappa, dopo la cerimonia del David, è al Festival di Cannes, dove la vedremo in La chimera di Alice Rohrwacher. Un percorso non convenzionale il suo, passato per i film cult di David Lynch, dei fratelli Frazzi e dei Taviani, scandito dalla libertà di ogni scelta e autonomo anche rispetto a quello dei suoi genitori, Ingrid Bergman e Roberto Rossellini: «Una delle ragioni per la quale ho accettato il premio è stato quello di non essere sempre “la figlia di”, “la moglie di”: ho adorato i miei genitori, mi sono sposata con grandi registi, ma basta con questo modo di definire le donne sempre come un riflesso di altre persone».

Lei ha avuto un inizio non canonico, da giornalista per la Rai negli Stati Uniti, prima ancora di diventare celebre come modella…
«Non ho mai pensato a una carriera. Quando ero giovane mi sono sempre interessata agli animali, ma allora non c’erano in Italia degli studi di etologia. Ho studiato per diventare costumista all’Accademia di Costume e Moda di Roma: i costumi sono un po’ la moda del passato. Poi a 19 anni sono venuta in America: mamma ci teneva molto che imparassi l’inglese. Sono diventata l’assistente di Gianni Minà, per tre anni gli organizzavo tutte le interviste sportive. È stato lui a presentarmi Renzo Arbore e De Crescenzo e sono entrata a “L’altra domenica”, dove facevo servizi giornalistici e comici: lì ho intervistato e conosciuto Martin Scorsese, poi ci siamo sposati. Avere un marito americano mi ha radicata negli Stati Uniti, dove per caso ho iniziato a fare la modella: ho incontrato il fotografo Bruce Webber che mi ha chiesto di fotografarmi. L’ho presa come un’avventura e invece ha aperto un’enorme carriera».

Nel 1979 il suo primo ruolo da protagonista è nel film “Il prato” dei fratelli Taviani: quando ha cominciato a considerare davvero di fare l’attrice?
«Avevo accettato più che altro perché era un’occasione per stare con i Taviani e vedere il cinema più da vicino non solo sui set dei miei genitori. Mia mamma era molto famosa e mi intimidiva un po’ essere attrice. Richard Avedon diceva che le modelle sono un po’ come le star del cinema muto, non possono parlare ma devono comunque esprimere emozioni: è stato proprio lui a spronarmi a recitare. Il mio primo film americano è stato Il sole a mezzanotte con Michail Baryšnikov, seguito da Blue Velvet di David Lynch. Gli americani conoscevano la mia faccia, ho avuto nove copertine del “Vogue” americano: si sono sorpresi quando hanno sentito che ero straniera: questo mi ha permesso di penetrare in un mercato americano che di solito è chiuso a chi ha un accento straniero».


Isabella Rossellini e Anthony Hopkins in "L'innocente"
Isabella Rossellini in "Blue Velvet"

Quali sono stati per lei i film più importanti, anche dal punto di vista umano?
«Quelli con David Lynch, perché lì c’è stata un’intesa artistica molto forte, ma anche L’innocente di John Schlesinger, e quelli con Jeroen Krabbé, col quale ho fatto cinque film. In Left Luggage, in particolare, ho interpretato un’ebrea ortodossa: è stata un’esperienza quasi antropologica, ho dovuto imparare tutte le tradizioni religiose, i movimenti giusti. Mi sono molto divertita lavorando a Joy di David O’Russell con Jennifer Lawrence e Robert De Niro, ma anche in una serie televisiva che ho appena finito sulla cuoca americana Julia Child: interpreto la sua maestra francese che le insegna a cucinare. Ho fatto poco l’italiana sullo schermo. Il francese è comunque per me una seconda lingua, lo parlo benissimo: mamma e papà hanno divorziato quando avevo tre anni, e sono andati a vivere prima in Francia, dove mamma è rimasta, mentre papà è poi tornato in Italia».

Nella prima foto di “La chimera” la vediamo trasformata in una signora molto anziana…
«È un film che parla di tombaroli e ha dei riferimenti con l’aldilà, in particolare riferiti agli etruschi. Sono una signora aristocratica decaduta che non ha più soldi e vive in una casa molto bella ma tutta rotta, e ha due figlie, una è morta ma la signora non lo ammette. Vive quindi con una gamba nella vita del presente e una nell’aldilà, un personaggio molto poetico».

In queste settimane sta portando a teatro il suo monologo “Darwin’s Smile”: da dove nasce?
«Ho fatto circa 40 corti e due film lunghi, comici, sugli animali. Non sono stati visti in Italia ma hanno avuto molto successo in America e in Francia. Ho riscritto questi corti in forma di monologo teatrale con Jean-Claude Carrière, il grande sceneggiatore di Peter Brook. L’ultimo mi è stato commissionato quando Jean-Claude era già scomparso: il Musée d’Orsay di Parigi mi ha chiesto una conferenza comica per una mostra sull’impatto della teoria di Darwin nell’arte. Il testo è poi diventato uno spettacolo per il Teatro Nazionale di Nizza. Lo sto portando negli Stati Uniti, in Germania, in Inghilterra. In Italia ancora non ci sono date, ma spero che grazie al David di Donatello ci sia più interesse anche per il mio lavoro di regista».

Le piacerebbe lavorare con più continuità nel cinema italiano?
«A 71 anni voglio continuare il mio lavoro di etologa e a fare i miei film su questi soggetti, di tanto in tanto un film d’attrice, ma non ho una particolare intenzione di cambiare vita. Ammiro moltissimo il cinema italiano, da Sorrentino a Martone: certo mi sarebbe piaciuto lavorare con loro, ma non è un mio fine. Se me lo chiedono, molto volentieri. Sennò continuo il mio lavoro da etologa».

È vero che dopo una certa età per le donne non ci sono più ruoli interessanti?
«Sono diventata etologa anche per questo. Dopo una certa età è un dato di fatto, ci sono solo ruoli da non protagonista. Avevo la curiosità per gli animali e sono tornata all’università a 55 anni perché il lavoro di attrice e di modella era praticamente finito. Da etologa sono diventata anche regista. Con lo streaming però ho l’impressione che ci siano storie più varie, forse siamo all’inizio di un nuovo capitolo: attrici e attori amici di una certa età mi dicono che il lavoro sta tornando. E sono tante le registe donne che hanno voglia di raccontare le loro madri, le loro nonne».

Qual è il suo film preferito?
«Il circo di Chaplin. Combina il cinema con il circo, gli animali, il divertimento. È il mio preferito in assoluto: l’ho visto tantissime volte e continua a darmi lo stesso stupore della prima».