IL CINEMA IN MASCHERINA: COME, E SE, LA PANDEMIA E' GIA' ENTRATA NELLE SCENEGGIATURE di Elisa Grando

Si può ancora scrivere un film sul presente senza considerare come il virus ha cambiato il nostro mondo? L’abbiamo chiesto agli sceneggiatori Maurizio Braucci e Valia Santella, vincitori del David di Donatello 2020.

Tra gli effetti collaterali del Coronavirus c’è quello di aver cambiato forse per sempre il nostro immaginario: sobbalziamo ogni volta che sullo schermo compare la scena di una festa, girata ben prima che la parola “assembramento” entrasse nel nostro lessico quotidiano. Per ora la mutazione è avvenuta soprattutto nella percezione dello spettatore: a parte in pochi instant-movie, la presenza del virus non ha ancora iniziato a marcare davvero le sceneggiature di fiction per il cinema e la televisione. Ma cosa succederà in quello che vedremo nei mesi a venire? Si può scrivere oggi un film senza considerare come la pandemia ha modificato il nostro immaginario? Gli sceneggiatori, insomma, stanno scrivendo per un cinema con o senza mascherina? L’abbiamo chiesto a due  sceneggiatori vincitori del David di Donatello 2020: Maurizio Braucci, premiato per la miglior sceneggiatura non originale di Martin Eden (per la quale ha appena ricevuto la nomination agli European Film Awards) e vincitore anche altre due volte per la miglior sceneggiatura di Gomorra e Anime nere, e Valia Santella, David di Donatello per la miglior sceneggiatura originale per Il traditore.



Maurizio Braucci: «Non serve scrivere di mascherine: dobbiamo aiutare lo spettatore a leggere il mondo»

Maurizio Braucci è lontanissimo dall’idea di raccontare frontalmente la pandemia. «Il virus ci condiziona sicuramente, perché quando si scrive è l’inconscio a dettare le regole», afferma. «Una cosa diversa però è raccontare storie che hanno a che fare con la pandemia: non so se la gente vorrebbe vederle. Personalmente, oggi non racconterei i contagi ma i ritmi folli della vita quotidiana che generano la pandemia, cosa sta dietro il nostro rapporto con la natura, come la scienza ha perso il polso del mondo il polso del mondo più che raccontare di contagi. Dobbiamo aiutare lo spettatore a leggere il mondo, le storie devono trasfigurare il quotidiano».


Anche se oggi ci si sorprende a vedere sullo schermo baci e assembramenti, «scriverei una sceneggiatura dove compare la mascherina solo se si trattasse di un film tematico sulla pandemia. Un po’ come la tuta da astronauta se si racconta un viaggio sulla Luna», afferma Braucci. Anche perché, aggiunge,«veniamo da vent’anni di realismo stretto, che ci ha dato tantissimo ma ha fatto il suo corso. Il pubblico, a mio parere, adesso vuole che la realtà sia raccontata anche allontanandosene, in maniera più caustica, visionaria e surreale. Insomma non si tratta più solo di guardare e conoscere il mondo, ma di guardare anche all’invisibile». Per esempio, Braucci sta lavorando allo script di un film, ambientato nella Taranto degli anni ‘90, sui “reparti confino”, «posti dove venivano messi i rompiscatole delle aziende: una situazione molto simile alla nostra condizione di lockdown. Il riferimento alla realtà, spesso, avviene in maniera indiretta e imprevedibile».


La pandemia però ha davvero cambiato il nostro modo di guardare il mondo: «Più che altro, lo ha spaccato in due: c’è chi è rimasto legato al vecchio e chi cerca il nuovo. Io appartengo al secondo gruppo». Spingersi al nuovo, per Braucci, significa anche provare a modificare i meccanismi ordinari, ma non sempre efficaci, del nostro cinema: «In Italia non c’è uno spazio in cui lo sceneggiatore possa proporre direttamente le idee per un film: di solito non è ritenuto un autore, ma è al servizio di una commissione o di un produttore. Una cosa che negli altri paesi non accade, e credo indebolisca molto il cinema italiano. Per questo ora sto lavorando per cambiare il percorso consueto e proporre soggetti miei, grazie anche alla legge del Mibact sui contributi allo sviluppo e alla pre-produzione».



Valia Santella: «Le nostre abitudini non sono più le stesse, ma stiamo ancora elaborando il cambiamento»

La pandemia non è ancora entrata nella penna di Valia Santella: in questi mesi è al lavoro su storie che guardano al passato, più o meno recente: «Sto lavorando con Valeria Golino su un progetto tratto da un libro, su un altro libro per una serie televisiva e inizio a ragionare con Nanni Moretti per un nuovo film. Gli adattamenti sono storie ambientate nel Novecento: in questo momento, creativamente mi danno sicurezza perché parlo di cose che conosco».


La questione, però, resta centrale. È davvero possibile, scrivendo i film dei prossimi mesi, far finta di niente, come se la pandemia non fosse mai venuta a cambiare le nostre vite? «C’è una questione pratica che riguarda quanto le nostre abitudini quotidiane siano cambiate e in che modo questi cambiamenti si radicheranno. Molti di noi hanno i figli che fanno la didattica a distanza, lavoriamo su Zoom. Adesso fatichiamo a capire se queste nuove abitudini diventeranno come il cellulare, del quale 25-30 anni fa non si faceva un uso così quotidiano. Penso che questo cambiamento entrerà nelle nostre consuetudini, ma oggi sembra ancora un po’ strano mostrare nelle case la gente che studia e lavora online. Poi c’è una questione più profonda e filosofica su come, cambiando il quotidiano, cambieranno le nostre relazioni».


Se il cinema non sta ancora registrando il mutamento della realtà, è perché «ci vuole un tempo di elaborazione, anche del nostro immaginario», dice Santella. «Vedremo più avanti se inserire l’elemento Covid. Certamente stiamo già raccontando il rapporto con le altre persone condizionati da quello che stiamo vivendo. Questo non significa censurarsi nello scrivere la scena di una festa ma è evidente che, se da spettatori proviamo una sensazione strana nel vedere gente che si assembra, tanto più la proviamo da sceneggiatori mentre immaginiamo una nuova storia».


Il virus ha già cambiato l’approccio con alcuni argomenti: «In uno dei libri che sto adattando insieme ad altri autori è citata l’influenza spagnola. Prima del Covid l’avevamo trattata con un atteggiamento diverso perché ci sembrava già molto raccontata, ma poi durante il lockdown abbiamo sperimentato sulla nostra pelle una pandemia e reinserito la spagnola raccontandola con una nuova chiave, il punto di vista del confinamento».